Home » , , » Il Cacciatore di Aquiloni il "bestseller silenzioso" di Khaled Hosseini.

Si dice che il tempo guarisca ogni ferita. Ma, per Amir , il passato è una bestia dai lunghi artigli, pronta a inseguirlo e a riacciuffarlo ...

il cacciatore-aquiloniSi dice che il tempo guarisca ogni ferita. Ma, per Amir, il passato è una bestia dai lunghi artigli, pronta a inseguirlo e a riacciuffarlo quando meno se lo aspetta.

Sono trascorsi molti anni dal giorno in cui la vita del suo amico Hassan - il ragazzo dal viso di bambola, il cacciatore di aquiloni - è cambiata per sempre in un vicolo di Kabul. Quel giorno, Amir ha commesso una colpa terribile.

Così, quando una telefonata inattesa lo raggiunge nella sua casa di San Francisco, capisce di non avere scelta: deve partire, tornare a casa, per trovare il figlio di Hassan e saldare i conti con i propri errori mai espiati. Ma ad attenderlo, a Kabul, non ci sono solo i fantasmi della sua coscienza. C'è una scoperta sconvolgente, in un mondo violento e sinistro dove le donne sono invisibili, la bellezza è fuorilegge e gli aquiloni non volano più.

Trent'anni di storia afgana - dalla fine della monarchia all'invasione russa, dal regime dei Talebani fino ai giorni nostri - rivivono in questo romanzo emozionante e pieno d'atmosfera, diventato ormai un caso internazionale.

Pubblicato in sordina negli Stati Uniti nel 2003, grazie al passaparola dei lettori e ai suggerimenti dei librai il "bestseller silenzioso" di Khaled Hosseini ha già venduto quattro milioni di copie solo sul mercato americano, e in Italia ha raggiunto il vertice di tutte le classifiche.

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Sono diventato la persona che sono oggi all'età di dodici anni, in una gelida giornata invernale del 1975. Ricordo il momento preciso: ero accovacciato dietro un muro di argilla mezzo diroccato e sbirciavo di nascosto nel vicolo lungo I torrente ghiacciato. È stato tanto tempo fa. Ma non è vero, le dicono molti, che si può seppellire il passato. Il passato ­si aggrappa con i suoi artigli al presente. Sono ventisei anni che sbircio di nascosto in quel vicolo deserto. Oggi me ne rendo conto.

Da bambini Hassan e io ci arrampicavamo su uno dei pioppi lungo il vialetto che portava a casa mia e da lassù infa­stidivamo i vicini riflettendo la luce del sole in un frammento di specchio. Ci sedevamo uno di fronte all'altro su un farne, le gambe nude a penzoloni, e mangiavamo more di liso e castagne di cui avevamo sempre le tasche piene. Usa­lo il frammento di specchio a turno, ci tiravamo le more ^ridevamo come matti. Vedo ancora i raggi di sole che fil-1O attraverso il fogliame illuminando il viso di Hassan perfettamente tondo, come quello di una bambola cinese di 10, con il naso largo e piatto, gli occhi a mandorla, stretti i una foglia di bambù, giallo oro, verdi, o azzurri come fi a seconda della luce. Ricordo le piccole orecchie  e il mento appuntito

Non mi avrebbe mai rifiutato nulla. E la sua fionda era infallibile. Quando suo padre Ali ci scopriva, si arrab­biava — per quanto si potesse arrabbiare una persona gen­tile come lui - e minacciandoci con il dito ci faceva scendere dall'albero. Poi ci requisiva lo specchio e ci ripeteva quello che sua madre diceva a lui quando era piccolo: che anche il diavolo usa gli specchi per distrarre i musulmani dalla pre­ghiera. «E ride mentre lo fa» aggiungeva sempre, guardan­do severamente il figlio.

«Sì, padre» balbettava Hassan con gli occhi a terra. Ma non mi ha mai tradito. Non ha mai confessato che tanto lo specchio quanto le castagne erano idee mie.

Il vialetto di mattoni rossi che conduceva al cancello in ferro battuto continuava all'interno della proprietà di mio padre, terminando nel giardino sul retro della casa.
Tutti ritenevano che casa nostra, la casa di Babà, fosse la più bella di Wazir Akbar Khan, un quartiere nuovo e ricco nella zona nord di Kabul. C'era addirittura chi pensava che fosse la più bella della città. Il vialetto d'accesso, fiancheg­giato da cespugli di rose, conduceva a una grande costruzio­ne con pavimenti in marmo e finestre immense.
Il pavimento dei quattro bagni era rivestito da intricati mosaici di piastrelle, scelte personalmente da Babà a Isfa­han. Alle pareti delle stanze erano appesi arazzi intessuti con fili d'oro, che Babà aveva acquistato a Calcutta.

Al piano superiore c'erano la mia camera da letto, quella di Babà e il suo studio, chiamato anche la "stanza del fumo", che profumava sempre di tabacco e cannella. Babà e i suoi amici se ne stavano lì, dopo cena, sdraiati sulle poltrone di pelle nera. Caricavano le pipe - Babà diceva "rimpinzare" -e discutevano dei loro tre argomenti preferiti: politica, affari, calcio. A volte chiedevo a Babà il permesso di rimanere con loro, ma lui ogni volta mi rispondeva: «Questo è il mo­mento degli adulti. Perché non vai a leggere un libro?». Poi chiudeva la porta lasciandomi solo a domandarmi perché con lui fosse sempre il momento degli adulti. Mi sedevo in corri­doio, le ginocchia piegate contro il petto, e a volte rimanevo lì un'ora, anche due, ad ascoltare chiacchiere e risate.

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Il soggiorno al pianterreno aveva una parete curvilinea con mobili costruiti su misura. Sui muri immagini di famiglia. Una vecchia foto sgranata del nonno con re Nadir Shah, del 1931, due anni prima che il sovrano venisse assassinato: sti­vali da caccia, fucile in spalla e ai loro piedi un cervo abbat­tuto. C'era una foto del matrimonio dei miei genitori: mio padre elegantissimo nel suo completo nero, mia madre una (giovane e sorridente principessa in bianco. In un'altra foto lo padre e il suo migliore amico e socio in affari, Rahim lan, ritratti all'esterno della casa.

Nessuno dei due sorride, sono anch'io, in braccio a mio padre che ha l'aria stanca triste. Le mie dita stringono il mignolo di Rahim Khan.  Di fianco al soggiorno c'era la sala da pranzo. Dal soffitto pendeva un lampadario di cristallo e al centro della , c'era un tavolo di mogano intorno al quale potevano SÌ una trentina di invitati - cosa che, dato che mio amava dare feste sontuose, accadeva quasi ogni settimana.

All'estremità meridionale del giardino, all'ombra di un nespolo, c'era la casa dei domestici, una capanna di argilla dove abitavano Hassan e Ali e dove io, nei diciotto anni in cui vissi lì, entrai pochissime volte. Era una stanza spoglia ma pulita, male illuminata da due lampade al cherosene e arre­data con due materassi appoggiati alle pareti, uno di fronte all'altro, un vecchio tappeto di Herat con i bordi sfilacciati, uno sgabello a tre gambe e, in un angolo, un tavolo dove Has­san disegnava. Appeso al muro, solo un piccolo arazzo con le parole Allah-u-akbar, ricamate a perline, che Babà aveva regalato ad Ali di ritorno da uno dei suoi viaggi a Mashad.

Era in quella capannuccia che Sanaubar, la madre di Has­san, l'aveva messo al mondo nell'inverno del 1964. Mentre mia madre era morta dandomi alla luce, Hassan aveva perso la sua una settimana dopo la nascita, in un modo che per un afghano è peggio della morte: Sanaubar era fuggita con una compagnia di ballerini e cantanti girovaghi.
Hassan non parlava mai di lei, come se non fosse mai esi­stita. Mi chiedevo se la sognava, se immaginava che aspetto avesse e dove si trovasse. Mi domandavo se desiderava in­contrarla. Provava anche lui la nostalgia struggente che pro­vavo io per la madre che non avevo mai conosciuto?

Un giorno, mentre andavamo al cinema Zainab a vedere un nuovo film iraniano, prendemmo la scorciatoia che attra­versava la caserma vicino alla scuola media Istiqlal. Babà ce l'aveva severamente proibito, ma in quel periodo si trovava in Pakistan con Rahim Khan. Scavalcammo lo steccato che circondava la caserma, superammo un torrente e sbucammo in uno spiazzo di terra battuta dove arrugginivano vecchi carri armati abbandonati. Alcuni soldati giocavano a carte r fumavano all'ombra di uno di quei relitti. Uno ci scorse i-, dando di gomito al suo vicino, chiamò Hassan.

«Ehi, tu. Io ti conosco.»

Non l'avevamo mai visto prima. Era un uomo tarchiato con la testa rasata e una barba nera di qualche giorno. Il mo­do in cui ci guardava, con un sorriso lascivo, mi spaventò. «Non fermarti» dissi tra i denti.

«Ehi, hazara! Guardami in faccia quando ti parlo!» gli urlò il soldato. Passò la sigaretta al suo vicino, unì indice e pollice della mano destra e infilò il medio della sinistra in quel cerchietto. Dentro e fuori. Dentro e fuori. «Ho cono­sciuto tua madre, lo sapevi? L'ho conosciuta proprio bene. L'ho presa da dietro laggiù, vicino al torrente.»

I soldati scoppiarono in una risata. Uno fischiò. «Non fermarti, non fermarti» ripetei.

«Che fica stretta e zuccherosa aveva!» diceva ghignando un soldato, mentre i suoi camerati gli stringevano la mano. Più li, nel buio del cinema, sentii Hassan singhiozzare.

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